Pietra
miliare della letteratura americana, Furore è un romanzo mitico,
pubblicato negli Stati Uniti nel 1939 e coraggiosamente proposto in Italia da
Valentino Bompiani l’anno seguente. Il libro fu perseguitato dalla censura
fascista e solo oggi, dopo più di 70 anni, vede la luce la prima edizione
integrale, nella nuova traduzione di Sergio Claudio Perroni. Una versione
basata sul testo inglese della Centennial Edition dell’opera di Steinbeck, che
restituisce finalmente ai lettori la forza e la modernità della scrittura del
Premio Nobel per la Letteratura 1962. Nell’odissea della famiglia Joad,
sfrattata dalla sua casa e dalla sua terra, in penosa marcia verso la
California, lungo la Route 66 come migliaia e migliaia di americani, rivive la
trasformazione di un’intera nazione. L’impatto amaro con la terra promessa dove
la manodopera è sfruttata e mal pagata, dove ciascuno porta con sé la propria
miseria “come un marchio d’infamia”. Al tempo stesso romanzo di viaggio e
ritratto epico della lotta dell’uomo contro l’ingiustizia, Furore è
forse il più americano dei classici americani, da leggere oggi per la prima
volta in tutta la sua bellezza.
Non
penso ci sia molto da dire sull’autore di questo libro, è uno dei grandi nomi
della letteratura americana; insignito di parecchi premi tra i quali anche il
Nobel per la Letteratura del 1962. Io avevo la grande pecca di non aver ancora
letto nulla di lui, prima di Furore, ma intendo assolutamente
recuperare.
Questo
libro è pieno di personaggi, ciascuno perfettamente caratterizzato, e soprattutto
che rimangono nel cuore dei lettori. La famiglia Joad è costituita dal padre
che, una volta persa la sua terra sente di aver perso la sua ragione d’essere,
lui aveva nella sua terra e nel suo lavoro la sua identità; la madre è un
personaggio, a mio parere, epico, è la vera forza della famiglia; poi c’è zio
John con la sua disperazione esistenziale; Tom, il primogenito, il ragazzo un
po’ fumantino con un passato difficile già alle spalle ma anche simbolo della
voglia di resistere e lottare; Noah, il secondogenito, un po’ misterioso; Al,
il giovane sbruffone, spensierato ma anche insofferente alle regole imposte; e
i due piccoli anche loro già perfettamente delineati dalla penna di Steinbeck. Anche
quei personaggi minori, che compaiono nello spazio di una pagina o di un
capitolo, rivelano un mondo e lasciano nel lettore la loro traccia, e poi c’è
anche una voce collettiva che sta a indicare il dramma comune di un intero
popolo costretto ad affrontare una propria epopea, una sorta di seconda
conquista del West, forse destinata ad un esito ancora più tragico della prima.
Cosa
dire dello stile? La scrittura è meravigliosa. Come hanno già detto vari critici
(che io indegnamente riprendo) è caratterizzato da più registri linguistici che
si adattano ai vari personaggi. Tenta inoltre di riprodurre il parlato in
maniera realistica. Io ho trovato il ritmo davvero incalzante, pur
soffermandosi l’autore a descrivere e a sviluppare anche sequenze riflessive. Molte
sono le parti dialogate ed estremamente efficaci, tanto è vero che i libri di
Steinbeck si sono ben prestati a una riduzione cinematografica.
Penso
che si sia perfettamente capito quanto questo libro mi sia piaciuto. L’ho
trovato avvincente, emozionante, doloroso, illuminante, molto attuale. Mi ha
fatto molto riflettere sia sulle dinamiche dell’emigrazione, ma anche sugli
squilibri sociali degli Stati Uniti. Ciò che Steinbeck osserva degli anni
Trenta tra contadini privati delle loro terre e i grandi latifondisti si può
attualizzare ai vari gruppi etnico-sociali degli USA di oggi. Inoltre le
riflessioni sul malcontento che porta gli uomini alla rivolta è, a mio avviso,
una valutazione estremamente attuale.
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