“Io
mi chiamo Silvano ma la provincia è sempre pronta a trovarmi un soprannome. E da
Silvano a Silver la strada è breve”. Con la sua voce dimessa e magnetica,
sottolineata da una nota sulfurea e intrida si umorismo amaro, il protagonista
ci porta dentro una storia che, lette le prime righe, non riusciamo più ad
abbandonare. Con Tre atti e due tempi Giorgio Faletti ci consegna un
romanzo perfetto come una partitura musicale e teso come un thriller, che
toglie il fiato con il susseguirsi dei colpi di scena mentre ad ogni pagina i
personaggi acquistano umanità e verità. Un romanzo che stringe in unità fili:
la corruzione del calcio e della società, la mancanza di futuro per chi è
giovane, la responsabilità individuale, la qualità dell’amore e dei sentimenti
in ogni momento della vita, il conflitto tra genitori e figli. E intanto,
davanti ai nostri occhi, si disegnano i tratti affaticati e sorridenti di un
personaggio indimenticabile. Silver, l’antieroe in cui tutti ci riconosciamo e
di cui tutti abbiamo bisogno.
Penso
che tutti conoscano il simpatico, indimenticato e rimpianto Giorgio Faletti,
uomo dalle molteplici anime artistiche. Di lui, amato fin dai tempi del Drive
In, non avevo mai letto nulla, soprattutto perché non ritengo il genere a cui
appartengono le sue opere di mio gusto. Comunque, mi hanno regalato questo
libro e quindi l’ho letto.
Si
tratta di un romanzo breve /racconto lungo su una partita di calcio truccata
per il mercato delle scommesse e la storia di un padre che vuole evitare che il
figlio ripeta i suoi stessi errori.
Naturalmente
il personaggio principale è Silvano, la voce narrante, che ci guida attraverso
il tempo, in un continuo passaggio tra passato e presente nella sua vita, in
quella del figlio Roberto e, di striscio, anche nel mondo dello sport, in
generale, e del calcio in particolare. Roberto, il figlio di Silvano, pur
avendo un ruolo importante nella trama, resta comunque sullo sfondo e viene
solo tratteggiato dall’autore.
Il
tema centrale è quello della storia di un uomo che, pur essendosi ricostruito
una vita, porta su di sé un fardello del suo passato, qualcosa che comunque ha
determinato il suo col figlio e,
nonostante la vita gli abbia dato delle nuove opportunità, le ombre del passato
continuano a tormentarlo. C’è l’idea di come le colpe del passato, oltre a
incombere sempre sull’individuo, si ripresentano come una sorta di macchia che
ritorna tramite il figlio. Poi, naturalmente, c’è il tema della complessità dei
rapporti tra padre e figlio e come questi siano compromessi dai silenzi e dai
malintesi, come la fiducia possa venire meno nonostante i sentimenti. Poi, c’è
anche il tema dell’ambiente del calcio, di tutte le sue brutture (significativo
che l’autore stesso dichiari in appendice di aver avuto suggerimenti e
consulenze da esponenti della società della Juventus…).
Il
narratore è interno e racconta in prima persona. A volte sembra di assistere a
un monologo a teatro. Soprattutto nella prima parte sono presenti continui
flashback che creano un intreccio di vari piani temporali. Prima di prenderci
familiarità , la cosa mi ha spiazzata perché non capivo a quale momento della
sua vita l’autore si riferisse. Ricorrente la frase finale di capitolo ad
effetto.
Mi
è piaciuto? Non molto. Non mi è piaciuta l’ambientazione, non mi è piaciuto il
protagonista che non mi ha colpita per nulla né mi ha fatto empatizzare con
lui. Dalla seconda metà, ho trovato la trama totalmente assurda e il finale,
direi, semplicistico.